Napoli, la parabola dei restauri «offerti» dalla pubblicità

 È prossimo l’intervento sull’arco di trionfo del Maschio angioino: nel ‘98 se ne occupò
la Fondazione Napoli99 che coinvolse esperti di fama, oggi tocca a una società
di pubblicità. La parabola degli ultimi trent’anni della città d’arte sta tutta qui

 

Nel 1988 la Fondazione Napoli 99 riconsegnò alla città, perfettamente restaurato, l’Arco di trionfo di Alfonso d’Aragona. Voluto da Mirella Barracco, il restauro aveva coinvolto esperti di fama mondiale come Francis Haskell e John Pope Hennessy ed era stato interamente finanziato dal Gruppo Iri Italstat. Nel 2017, avendo frattanto subito gravi atti di vandalismo, il portale si avvia a un secondo restauro. Questa volta, però, ad opera di una società di pubblicità, la Uno Outdoor, a cui spetterà mettere le mani sul meraviglioso Arco. E a cui andranno spropositati profitti. La parabola di Napoli negli ultimi trent’anni sta tutta qui. Ma qual è il problema? Quando nel 2013 il Comune affida il restauro di ben 27 monumenti alla Uno Outdoor, che si impegna a coprire la spesa (multimilionaria) grazie ai cartelloni pubblicitari messi attorno ai monumenti durante i lavori, sembra l’uovo di Colombo. Ma le cose sono più complicate e più opache, se è vero che lo stesso bando di gara riceve poi importanti obiezioni da parte dell’Autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone. E non solo. Altrettanto grave è che l’impresa, ottenendo i propri guadagni da quei cartelloni, abbia tutto l’interesse a dilatare i tempi dei restauri.

Perché questo significa dilatare i tempi dell’introito pubblicitario. Elementare, Watson. Il restauro del Ponte di Chiaia, per esempio, che nell’agosto 2015 era stato promesso entro 240 giorni, rimane a tutt’oggi una chimera, mentre sul Ponte, da un anno e mezzo, campeggiano trionfanti le gigantografie delle marche di caffè o della biancheria intima. Ma ancora più grave è che sia un’impresa di pubblicità a decidere chi debba fare concretamente i restauri. Ne ha le competenze? Certo è che quelli fin qui realizzati appaiono assai modesti, approssimativi, talvolta tristemente ridicoli. Il monumento a Diaz, l’ultimo spacchettato, mostra ancora in bella vista tutti i «ti amo» dei soliti graffitari. Tant’è che il Comune ha dovuto dire che no, il restauro non è in realtà ultimato e che quelle scritte vanno ancora ripulite. Il dubbio che si facciano danni irreparabili alle opere d’arte, però, è legittimo.

E qui si arriva al gran finale. Perché, in teoria, esiste eccome un’autorità preposta al controllo della qualità dei lavori. Ma si tratta di quella Soprintendenza per i Beni Architettonici che ha inanellato, ultimamente, una quantità di errori, disattenzioni, pigrizie. O gaffe. Luciano Garella è colui che, intervistato nel novembre 2016 da Repubblica, ebbe a qualificare coloro che lo stavano criticando come «persone un po’ agèe che hanno magari badanti ucraine le quali firmano per loro». Lo stesso Garella che, infastidito dalle polemiche, diceva di NAlbero: «il 5 febbraio o giù di lì deve andar via» (ora sappiamo per certo che andrà via «giù di lì»). La sua Soprintendenza, del resto, non ha brillato per efficacia e neppure per rigore di fronte alla sistemazione di via Caracciolo, al restauro della Cassa Armonica, alla colorazione dei monumenti di piazza Trieste e Trento, ai degrado del Plebiscito. Eccetera. Hanno o no qualche motivo per preoccuparsi i napoletani più avveduti, compresi gli anziani e le badanti?

E qui andrebbe aperto il capitolo di un’opinione pubblica che sembra scarsamente reattiva ai processi di dequalificazione urbana in atto. Il tema però è complicato. C’è di mezzo la politica. La quale, notoriamente, non fornisce un bello spettacolo di sé. Ma è proprio questo il punto. Oggi cittadini e media sono monopolizzati dai guai giudiziari di Tiziano Renzi o dalle convulsioni del Pd napoletano. Ed è comprensibile. O meglio, è inevitabile. Nel frattempo però veleggiano nell’indifferenza generale processi di grande portata al tempo stesso materiale, culturale ed elettorale. Come la movida selvaggia, che costituisce un ulteriore elemento di degrado urbano, eppure frutta ai gestori dei locali centinaia di milioni all’anno. O il malgoverno del patrimonio immobiliare del Comune, che depaupera l’intera cittadinanza, eppure avvantaggia qualche decina di migliaia di fortunati affittuari. O, appunto, il restauro dei monumenti promosso da Palazzo San Giacomo, che svende i gioielli di famiglia ai pubblicitari. È anche così che si va coagulando una rete ormai fitta di interessi economici e di consenso elettorale. Un vero e proprio progetto politico, rispetto al quale chi non ne è direttamente avvantaggiato assume atteggiamenti di straniamento o di fatalismo. Come se la mutazione culturale della città fosse un destino.

Paolo Macry – Il Mattino